Esistono a questo proposito alcune schematiche, ma efficaci, classificazioni cui poter fare riferimento. Di solito si distinguono innanzitutto un “periodo prodromico o fase latente” e un “periodo dilatante”. Il periodo prodromico rappresenta in qualche modo la zona di confine, il punto di passaggio, tra il prima e il dopo. Tra la gravidanza, come è stata conosciuta e vissuta fino a quel momento, e il vero e proprio travaglio attivo che porterà concretamente alla nascita del nuovo bambino.
Nel periodo prodromico, che soprattutto in una donna al primo parto può avere una durata estremamente variabile, a volte anche più di 24 ore, le contrazioni saranno inizialmente ancora brevi e irregolari, per poi acquistare un po’ alla volta maggiore ritmo e coordinazione. Si verificheranno l’appianamento e la scomparsa del collo uterino (anche in questo caso con qualche differenza di tempi e sequenza tra donne al primo parto e donne che hanno già avuto altri figli). Il dolore inizierà progressivamente a farsi percepire in modo sempre più riconoscibile, soprattutto a livello addominale e lombo-sacrale, ma le pause saranno ancora lunghe e prevalenti.
In questa fase, comunque, se il sacco amniotico è ancora integro, sarà certamente prematuro correre in ospedale. In condizioni fisiologiche sarà preferibile trascorrere questi momenti nel calore, nella serenità e nella libertà offerte dal proprio ambiente domestico.
Madre e bambino si preparano – dal punto di vista fisico, ormonale ed emotivo - al momento del parto vero e proprio. La donna è ansiosa, eccitata e consapevole che “il momento è quasi arrivato”. In lei convivono spesso due sentimenti contrastanti: da un lato la voglia e la necessità di terminare la gravidanza, mettendo al mondo il proprio figlio; dall’altra la cosiddetta “ansia di separazione”, ossia l’inquietudine suscitata dall’inevitabile distacco con una parte intima di sé. Una nuova vita che fino a quel momento è cresciuta nel proprio corpo ma che tra poco acquisirà definitivamente una propria autonoma identità. Il bambino reale sta per incontrare il cosiddetto “bambino immaginario” sognato fino a quel momento.
Nella madre, tra l’altro, sarà anche presente da qualche settimana il cosiddetto “istinto di nidificazione”. Il bisogno cioè che che tutto sia a posto, pronto, sistemato. Il bisogno di avere tutto sotto controllo. La necessità di garantire al proprio figlio la “miglior nascita possibile”.
La donna inoltre prende gradualmente contatto con il dolore, inizia a sperimentare il proprio corpo e le proprie emozioni di fronte a questo nuovo contesto. È ancora vigile e ricettiva, anche durante le contrazioni. Avverte però il contatto con il nascituro che a sua volta avrà modificato il proprio atteggiamento in utero e andrà ad affrontare le cosiddette tappe della “riduzione” e “dell’impegno”, adattando i diametri della propria parte presentata (generalmente la testa) a quelli dell’ingresso pelvico materno. Il corpo della madre a sua volta continua a trasformarsi e a prepararsi. Le prostaglandine ad esempio stimolano le contrazioni e ammorbidiscono il collo uterino. Prostaglandine che, tra l’altro, sono presenti anche nello sperma dell’uomo.
Purtroppo l’ultima cosa a cui la maggior parte delle coppie pensa in questa fase è quella di avere rapporti intimi. Preferendo magari precipitarsi in ospedale e affidarsi alle competenze tecniche e ai protocolli standard degli operatori sanitari. Eppure i benefici naturali che la sessualità può produrre in travaglio sarebbero enormi. Un rapporto, ad esempio, può contribuire con diversi meccanismi a liberare endorfine e ossitocina, oltre alle già citate prostaglandine, fattori indispensabili per il buon esito del travaglio e del parto. Perché allora farsi asetticamente somministrare alcune di queste sostanze, magari con flebo e manovre invasive, dal ginecologo o dall’ostetrica, quando è possibile recuperare dentro di sé tutte le risorse necessarie? E questo semplicemente attraverso qualche privato momento di piacere e affetto con il proprio partner.
Come per il resto della gravidanza, anche l’evoluzione di questa fase sarà comunque profondamente condizionata dalle specifiche caratteristiche della donna in questione. Dalla sua età, dal suo carattere, dal suo vissuto, dalle sue aspettative, dal tipo di sostegno affettivo su cui può contare e così via. Ogni donna è diversa dalle altre così come lo è ogni personale esperienza di maternità.
Ciò che in questa fase tutte sperimentano, tuttavia, è la cosiddetta perdita del tappo mucoso. Come spiega il nome stesso, si tratta di un tappo composto essenzialmente da muco denso e biancastro che normalmente si trova all’interno della cervice per proteggere l’utero dalla penetrazione di batteri e (tranne che nei giorni dell’ovulazione) spermatozoi.
Le modificazioni del collo dell’utero che si verificano in prossimità del parto determinano meccanicamente la perdita di tale tappo (spesso misto a sangue, si dice che la donna “marca” per la prima volta) e indicano in modo tangibile alla donna che il travaglio attivo vero e proprio si sta avvicinando. Si sta avvicinando il periodo dilatante.
Le contrazioni adesso si fanno più intense, prolungate, frequenti e regolari. Il collo, ormai appianato, inizia a dilatarsi sensibilmente. Un po’ alla volta dai due centimetri iniziali arriveremo ai dieci centimetri della dilatazione completa. Lo stesso periodo dilatante tuttavia è a sua volta articolato in diversi passaggi e momenti che complessivamente – soprattutto al primo parto - possono durare dalle quattro alle otto ore circa.
Avremo una prima fase di travaglio attivo in cui, accompagnando le contrazioni, il dolore si manifesta in modo sempre più consistente, “a cintura”, a livello lombo-sacrale, sovrapubico e nella zona delle fosse iliache. La donna cerca e trova spontaneamente le migliori posizioni antalgiche, attua le strategie di respirazione e rilassamento apprese durante il corso pre-parto, chiude gli occhi e alterna momenti di lucidità con altri di raccoglimento in se stessa. La dilatazione in questa fase raggiunge i cinque centimetri circa.
Segue poi una prima fase di transizione, in cui il travaglio rallenta e la futura mamma conquista una pausa di tranquillità e ricarica. Spesso la gestante riesce a riposare e a mangiare qualcosa. Altre volte invece questa fase di transizione è vissuta in modo più violento e drammatico, con contrazioni intense e forti sbalzi emotivi che possono anche tradursi in pianto e vomito. In ogni caso, a questo punto, la dilatazione avrà ormai superato i cinque centimetri e ci si appresterà allo sforzo finale. Alla seconda fase del travaglio attivo.
La donna, concentrata su se stessa, si abbandona, la sua coscienza è alterata, le contrazioni sono sempre più intense, regolari e frequenti. In questa fase avremo un progressivo aumento del dolore e della pressione a livello lombo-sacrale. Il periodo dilatante si conclude con una seconda e ultima fase di transizione – anche questa volta vissuta, a seconda dei casi, come rallentamento o come passaggio violento – ma che in ogni caso funge come introduzione al decisivo “periodo espulsivo”.
Ormoni come l’ossitocina e le endorfine raggiungono il loro picco. Le contrazioni sono molto ravvicinate, intense e prolungate. La dilatazione è ormai completa; la donna “marca” per la seconda volta e il sacco amniotico, se ancora integro, si rompe. Solo in questo caso, cioè se avviene a dilatazione completa, la rottura del sacco amniotico viene definita “tempestiva”.
Il feto nel frattempo progredisce nel canale del parto e – giunto con la parte presentata a livello dello stretto medio - compie la cosiddetta rotazione interna per adeguare ancora una volta i propri diametri a quelli materni.
La donna, in questa fase, torna ad essere vigile, ed è al centro della propria esperienza di maternità. Protagonista assoluta della scena. Avverte il cosiddetto premito incoercibile, sente il bisogno di spingere, di attivare i muscoli del torchio addominale, mentre il perineo, specialmente se preparato adeguatamente, si distende in modo naturale. Affiancata dall’ostetrica, è sempre la donna, in corrispondenza delle contrazioni e delle spinte, a capire come aiutarsi con il respiro, con l’utilizzo della voce e quale posizione assumere (in molti ospedali la donna partorisce di routine in posizione “litotomica”, ossia da sdraiata. In realtà, quando non esistono controindicazioni specifiche, molte donne preferiscono le cosiddette posizioni verticali: in piedi, accovacciata, a carponi ecc. Anche se un po’ più scomode per l’ostetrica, queste posizioni sono, a nostro avviso, assai migliori. Le posizioni verticali permettono ad esempio di spingere in modo più corretto ed efficace, aiutano a controllare, distendere e preservare meglio il perineo e sfruttano appieno l’effetto della forza di gravità).
Il compito di chi assiste la partoriente sarà comunque quello di sostenerla, di aiutarla, di contenere e veicolare correttamente le sue energie, di proteggere la sua intimità. Sarà quello di non avere fretta, di rispettare i tempi naturali di questo evento, di monitorare e difendere la fisiologicità del momento. Sarà quello di assecondare il naturale disimpegno della parte presentata, la sua rotazione esterna, il disimpegno delle spalle e infine l’espulsione totale del feto. Non dovrebbe mai essere invece quello di imporsi e decidere per lei, stabilendo in modo direttivo tempi e modalità di un percorso che, in condizioni normali, è perfettamente regolato dalla natura. Nel giro di un paio d’ore al massimo, spesso molto meno, il periodo espulsivo si conclude e il bambino nasce da sé.
A questo punto, mentre il neonato sperimenta il primo contatto esterno con il corpo della madre e si attacca al suo seno, attivando un fondamentale processo di scambio e riconoscimento reciproco, si passa al periodo del cosiddetto “secondamento” - la fase cioè in cui avviene l’espulsione o l’estrazione degli annessi fetali dall’organismo materno – e poi a quello del “post-partum”.
In particolare compariranno alcune nuove contrazioni uterine e alla madre potrà essere chiesto di dare ancora qualche piccola spinta (nulla di paragonabile comunque all’intensità di quanto accaduto durante il periodo espulsivo). Si verificheranno in questa fase il distacco della placenta dalla sua sede di inserzione, la sua caduta nel segmento uterino inferiore, il successivo passaggio in vagina e quindi la sua espulsione all’esterno. Contestualmente usciranno anche le membrane e il moncone placentare del funicolo.
Il tutto si verifica solitamente in modo spontaneo e nel giro di un’ora al massimo. In questa fase gli operatori che assistono il parto dovranno attendere pazientemente evitando di anticipare i tempi con manovre inopportune. Piuttosto sarà importante che continuino a monitorare l’entità delle inevitabili perdite ematiche della donna. Diversi meccanismi fisiologici d’altra parte entrano in azione proprio per contenere tale emorragia.
Da una parte si parla di “emostasi meccanica muscolare” e di “globo di sicurezza” per definire la spontanea contrazione delle fibre miometriali dell’utero che circondano, e adesso strozzano, i vasi sanguigni. Dall’altra di “emostasi fisiologica definitiva”, caratterizzata dai naturali meccanismi di coagulazione del sangue (con formazione di piccoli trombi che vanno a chiudere le cosiddette boccucce vascolari). La combinazione di tali fattori serve appunto ad arginare l’abbondante sanguinamento derivante dalla ferita che si sarà creata sulla superficie interna dell’utero in seguito al distacco della placenta.
Le prime due ore dopo l’uscita della placenta, infine, vengono definite “post-partum”. Si tratta in pratica dell’inizio del puerperio. Una fase di passaggio in cui la donna resta sotto l’attento controllo degli operatori che ne valuteranno ancora le perdite di sangue, le condizioni dell’utero (contrazione e retrazione), nonché alcuni parametri generali come polso, temperatura, pressione, respirazione, aspetto e comportamento. Il parto può dirsi concluso; è il momento di iniziare una nuova avventura.
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