Un quarto delle persone che vivono in Germania ha origini migratorie. A rivelarlo è uno studio dell'istituto di Statistica federale su dati 2022. Secondo il dossier, 20,2 milioni di persone, ovvero il 24,3% della popolazione complessiva della Repubblica federale ha una storia di migrazione alle spalle. La strategia tedesca di favorire l’ingresso di famiglie immigrate è uno degli assi strategici grazie ai quali la Germania è riuscita a contrastare il declino demografico, registrando una crescita di ben tre milioni di abitanti in soli dieci anni. Incoraggiata dall’apertura ai profughi in fuga dalla guerra (prima i siriani, oggi soprattutto gli ucraini), questa scelta si è rivelata decisiva sia per rispondere alle esigenze immediate del mercato del lavoro, sia per assicurare in futuro il turnover generazionale. Tanto decisiva da essere indicata come la via da seguire anche in Italia, rispondendo al bisogno di immettere nuova linfa in un paese «a rischio di estinzione », come ha dichiarato Elon Musk sul “Wall Street Journal” il 7 aprile.
In realtà, è da quasi 40 anni che, dapprima la crescita della popolazione residente in Italia e quindi – dal 2015 – il contenimento della sua decrescita, sono interamente ascrivibili alle dinamiche migratorie: inizialmente ai rientri degli emigranti italiani e poi, dall’ultima decade del XX secolo, agli ingressi di stranieri, con un’intensificazione registrata nel passaggio al nuovo millennio, quando i residenti stranieri sono balzati dal milione registrato a fine anni Ottanta agli oltre quattro milioni del 2008. Successivamente, complici la crisi economica e la svolta restrittiva delle politiche migratorie, il volume annuale di iscritti in anagrafe dall’estero è sceso da valori attorno a 400mila a meno di 200mila negli anni precedenti la pandemia. Il saldo migratorio complessivo (risalito nel 2022 a quasi 229mila), sebbene insufficiente a controbilanciare un saldo naturale drammaticamente negativo (-321mila nello stesso 2022, dati provvisori), continua però a risultare prezioso nel mitigare le conseguenze della bassissima fecondità che attanaglia l’Italia da decenni senza ancora aver prodotto interventi adeguati a invertire la rotta.
In un paese in cui il tasso di fecondità è durevolmente attestato al di sotto del livello di sostituzione, che gli equilibri demografici dipendano dall’immigrazione dovrebbe essere autoevidente. Già nel 2000, le Nazioni Unite stimavano (qui: tinyurl.com/mr2bp6d4) che, per soddisfare la domanda di lavoro e sostenere il sistema contributivo, sarebbe stato necessario richiamare dall’estero addirittura molti più immigrati di quanti non volessero spontaneamente venire in Italia: ben 12 milioni entro il 2050, cifra che oggi può suonare non così inverosimile, ma che allora appariva assolutamente straordinaria.
Ad oltre vent’anni di distanza, l’ulteriore involuzione degli scenari demografici – suggellata in questi giorni dai dati diffusi dall’Istat che denunciano una natalità al suo minimo storico – conferma quanto l’immigrazione sia essenziale per contenere le conseguenze sia dell’eccesso di decessi rispetto alle nascite, sia di una popolazione sempre più anziana e del suo impatto sull’indice di dipendenza. I nsieme ai fabbisogni contingenti e futuri del mercato del lavoro (di cui abbiamo discusso in un precedente articolo: tinyurl.com/yjw63xjv), è dunque la necessità di raggiungere un equilibrio sostenibile tra il “peso” delle diverse generazioni a suggerire il ricorso a politiche migratorie che rafforzino la capacità attrattiva dell’Italia. Ciò potrebbe sembrare paradossale, specie in un frangente in cui cresce l’apprensione per il peggioramento del quadro geo-politico-economico di diversi paesi col suo inevitabile strascico di esodi forzati e “volontari”. Va però considerato come anche generosi interventi a supporto della natalità – peraltro assolutamente indispensabili e urgenti – non sarebbero in grado, da soli, di compensare le conseguenze della cosiddetta “trappola demografica”: la scarsità di nascite dei decenni passati ha infatti irrimediabilmente ridotto il numero di donne in età riproduttiva, facendo così dipendere le possibilità di miglioramento nel breve-medio periodo dall’“importazione” dall’estero di potenziali genitori.
Peraltro, il peso demografico dell’immigrazione è già oggi ben più significativo rispetto ai poco più di 5 milioni di stranieri residenti censiti dall’Istat. Includendo anche i soggiornanti non residenti e soprattutto coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana – trasmettendola ai figli – si arriva a una stima di circa 8 milioni di persone con un background migratorio. Per di più, da molti anni sono proprio i ricongiungimenti familiari ad alimentare la crescita della popolazione immigrata (122mila i nuovi permessi per motivi familiari rilasciati solo nel 2021). Il dato è doppiamente significativo: spesso, infatti, si sottovaluta come i migranti di prima generazione non costituiscono di per sé un fattore di ringiovanimento della popolazione, ma possono addirittura contribuire all’“invecchiamento importato”, proprio perché hanno davanti a loro meno anni di vita (e di vita attiva) rispetto a chi nasce in Italia. Al contrario, quando diventa familiare e dà vita alle seconde generazioni, l’immigrazione è capace di incidere in maniera irreversibile sul quadro demografico, arrivando altresì a modificare i caratteri della popolazione per come essi sono stati rappresentati dal mito nazionalistico dell’omogeneità etnica, culturale e religiosa. Proprio tale circostanza rende quella di cui stiamo parlando una questione controversa, ma ci permette anche di cogliere i segnali di un nuovo modo di guardare all’immigrazione e al suo rapporto con le società europee.
In un contesto politico-culturale in cui la difesa dell’“identità” costituisce un elemento cardine della narrativa anti-immigrazione, comportamenti procreativi “devianti” rispetto alla norma si prestano facilmente alla retorica della “sostituzione etnica”, tanto più poiché sono le donne originarie da paesi extra-europei (specie a maggioranza islamica) a registrare i livelli di fecondità più elevati. Ciò si verifica anche in Italia dove, sebbene in rapida riduzione (dal 2,47 del 2003 all’1,87 del 2021), il tasso di fecondità delle donne straniere continua a essere significativamente più elevato di quello delle donne italiane (1,18 nel 2021). Tuttavia, sono davvero in molti oggi ad apprezzare l’apporto positivo che le famiglie immigrate danno ai tassi di fecondità, consegnando così alla storia la concezione “etnica” della nazione: un passaggio tanto più emblematico se a compierlo è un paese come la Germania, che di tale concezione è stato uno dei più convinti interpreti, anche nel suo approccio agli immigrati, a lungo ridotti allo status di “lavoratori ospiti”.
Anche in Italia, grazie soprattutto alla sua composizione per età, l’immigrazione sta portando un contributo prezioso alla demografia. Il tasso di crescita naturale degli stranieri, mantenutosi su valori intorno al 20‰ nella prima parte degli anni Duemila per poi decrescere a partire dal 2009 (dal 19,6‰ al 9,2‰ nel 2021), continua a essere positivo (+46.900 unità il saldo tra nascite e morti nel 2021). E, sebbene in diminuzione (anche per effetto delle acquisizioni di cittadinanza), i nati con almeno un genitore straniero – passati da oltre 107mila nel 2012 a quasi 86mila nel 2021– costituiscono più del 20% del totale. Indipendentemente dalla dinamica dei nuovi ingressi –per loro natura difficili da prevedere – l’incidenza della popolazione con un background migratorio è dunque destinata a divenire via via più rilevante.
Tutto ciò significa che i destini degli immigrati e dei loro figli avranno la tendenza a sovrapporsi, con sempre maggiore evidenza, ai destini della società italiana. Temi e problemi come quelli del sotto- utilizzo del loro potenziale o della penalizzazione retributiva, della povertà educativa e della precarietà abitativa assumono, in questa prospettiva, una nuova luce, una volta che se ne valutino le conseguenze in termini di contributo al sistema fiscale e previdenziale, di allargamento dell’area dell’esclusione e della vulnerabilità sociale, ma anche di “qualità” complessiva della convivenza. Per valorizzare il potenziale demografico dell’immigrazione in un’ottica di sostenibilità occorre dunque agire sulle cause dello svantaggio strutturale che oggi la caratterizzano. Senza sposare la filosofia selettiva adottata da altri paesi (e notoriamente dalla stessa Germania), è innanzitutto urgente intervenire proprio su quei fattori che oggi fanno sì che in Italia la povertà familiare sia fortemente correlata alla presenza di (più) figli piccoli. Per l’8,3% delle famiglie italiane, ma addirittura per il 36,2% di quelle straniere.
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