«Sull’uso di negro, nero e di colore per descrivere e caratterizzare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della sua (o della loro) pelle si è discusso non poco, negli ultimi decenni. E tuttora si continua a discutere, a voler scorrere, in Internet, i forum dedicati al tema. Non è un caso. Perché non vi è dubbio che l’argomento e le connesse scelte linguistiche presentino alcune incertezze e insidie sia sul piano squisitamente lessicale, sia su quello dell’accettabilità o dell’interdizione sociale. Fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore sono stati usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili (tutt’al più, erano caratterizzati da un diverso uso sintattico, essendo gli ultimi due impiegati soprattutto in funzione aggettivale).
Negro, fra i tre, era certamente quello più storicamente attestato, più semanticamente pregnante. Tradizionalmente, identificava una presunta «razza» (la «razza negra», o «i negri», appunto) a cui nei secoli erano state attribuite precise e specifiche caratteristiche, sia fisico-somatiche sia morali (ancora negli anni Cinquanta – anni in cui cominciò a vacillare lo stesso concetto di «razza» – era possibile leggere sullo Zanichelli che «i negri» erano “popoli d’Africa di colore scuro… con cranio stretto e alto, prognatismo… collo grosso, pelle grossolana, statura piuttosto alta, vivaci, facile da imitare…»). Veicolava giudizi di inferiorità. Ed evocava secoli di «razzismo», e di crimini commessi in suo nome. Tuttavia, poteva essere utilizzato – soprattutto, in funzione aggettivale – senza provocare scandalo, o senza essere ritenuto necessariamente offensivo.
Solo all’inizio degli anni Settanta, in seguito alle lotte dei «neri» americani, alcuni traduttori avrebbero cominciato a bandire l’uso di negro in favore di nero, che pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black, assurto a simbolo e parola-chiave dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti. Cominciò anche a diffondersi l’espressione di colore, calco dall’anglo-americano coloured . Ciò non inibì, comunque, la circolazione di negro, che anzi negli anni Ottanta poteva essere usato – con pretesa di neutralità – dai più importanti media nazionali in relazione al fenomeno dell’immigrazione, e alla crescente presenza, in Italia, di immigrati provenienti – in prevalenza – dall’Africa, e quindi «negri» o «neri» per definizione (da un articolo di «Epoca», del 13 dicembre 1987: «... il 24 per cento degli italiani non vorrebbe avere una relazione sentimentale con un negro...»; cfr. Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia.
Qualcosa probabilmente cambiò con l’inizio degli anni Novanta, quando importammo il dibattito sul «politicamente corretto» dai paesi anglosassoni. Con degli esiti sia sull’asse paradigmatico – nella scelta, cioè, fra negro, nero, di colore (o afro-americano, che però da noi ha attecchito solo in certi contesti d’uso, e in certi registri) – sia, più in generale, nella percezione del rapporto tra lingua e società, e tra usi linguistici e sensibilità (individuali e collettive). Ricevendo quindi non soltanto indicazioni – secondo alcuni, prescrizioni – lessicali (ad esempio, l’interdizione dei vocaboli anglo-americani negro e nigger, che ha certamente avuto dei riflessi nell’interdizione dell’italiano negro), ma soprattutto spunti di discussione sul valore discriminante di alcune categorie ed etichette verbali all’interno di una società complessa, dove i rapporti di forza e di potere tra la maggioranza e le minoranze passano anche attraverso il linguaggio.
Quale che sia l’opinione rispetto al movimento del «politicamente corretto» e alle sue rivendicazioni, è stata probabilmente questa maggiore attenzione all’uso delle parole (e alle loro ripercussioni sociali, con l’innescarsi di atteggiamenti di stigma, o di fenomeni di interdizione), seppur indotta, ma suscitata non a caso nei decenni in cui il fenomeno dell’immigrazione ci ha messo di fronte alla presenza dell’«altro», a far sì che negro, oggi, appartenga ormai alla sfera del vituperio. Perché è nella prassi che negro è generalmente avvertito dai parlanti come offensivo, discriminante: sia da chi lo utilizza, consapevolmente, per insultare (ad esempio, in binomi lessicali pressoché fissi come «sporco negro», «negro di merda»), sia da chi lo riceve, come epiteto. E sia da chi, pur obiettando che esso è etimologicamente giustificato, e sottoposto a censura solo per motivi di fastidiosa pruderie linguistica, avverte la necessità di sostituirlo con nero, consapevole tanto delle connotazioni legate storicamente a negro quanto delle norme sociali che ormai ne regolano l’uso. Certo, sarebbe bene – come sempre, in fatto di lingua - non prescindere dai contesti, dalle intenzioni del parlante, o dai tratti sovrasegmentali (come l’intonazione). Ed evitare, in ogni caso, tentazioni censorie o posizioni isteriche (come quella di quel tale che un giorno – il racconto è autentico - in piscina sentì un ragazzino che urlava «negro, negro», gli si avvicinò indignato per rimproverarlo, e si sentì rispondere: «ma sto chiamando il mio amico: si chiama Negro di cognome»). Tuttavia, negro resta indubbiamente un termine problematico: occorre tenerne conto.
Quanto a nero o di colore, il dibattito è tuttora aperto. L’espressione di colore – da molti ritenuta neutra e priva di connotazione negativa – è stata in anni recenti messa sotto accusa. In proposito, si ricorderà la poesia anonima, circolata ampiamente sul web con intento ironico-polemico, Uomo di colore («Io, uomo nero, quando sono nato ero Nero/Tu, uomo bianco, quando sei nato, eri Rosa/Io, ora che sono cresciuto, sono sempre Nero/Tu, ora che sei cresciuto sei Bianco/Io, quando prendo il sole sono Nero/Tu, quando prendi il sole sei Rosso/Io, quando ho freddo sono Nero/Tu, quando hai freddo sei Blu/Io, quando sarò morto sarò Nero/Tu quando sarai morto sarai Grigio/E tu mi chiami uomo di colore»), o anche, forse, il vivace battibecco, negli Stati Uniti, tra il senatore Harry Reid e il giornalista Cord Jefferson, rispettivamente contro e a favore dell’uso del termine colored. In attesa di uno studio che dell’espressione ci fornisca, tanto in diacronia quanto in sincronia, contesti, occorrenze e co-occorrenze, frequenze d’uso, si fa strada la sensazione che il significato di di colore – eufemismo adottato per sostituire l’offensivo negro – invece di essere percepito come neutro, metta l’accento proprio sulla caratteristica (il colore della pelle) che si vorrebbe non evidenziare e non discriminare. E quindi si tende a preferire nero, in generale, per indicare tutte le gradazioni più scure del colore della pelle.
Detto questo, anche il termine nero non è privo di connotazioni ambigue. Quando usato come sostantivo per identificare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della pelle, rischia anch’esso di creare una categoria approssimativa, omogenea e omologante («i neri», «le nere»), basata non solo sul contrasto cromatico, ma anche – è sensazione di chi scrive – sulla mancanza, difettiva, di alcuni tratti (tanto fisici quanto culturali tout court) che si presume appartengano al gruppo (bianco) di maggioranza. Quando usato come aggettivo, rischia di apparire sovrabbondante: di essere usato, cioè, anche quando non ce ne sarebbe bisogno (ad es. Il cameriere nero ci ha serviti).
Il punto vero, infatti, è che – al di là di opzioni più o meno accettate – sarebbe meglio specificare il colore della pelle solo se effettivamente necessario ai fini della comprensione del messaggio o dell’informazione che si vuole trasmettere. Non certo per nascondere una caratteristica fisica; semmai – al contrario – per non rimarcarla quando non serve. Come si fa, d’altronde, comunemente con tutte le altre pigmentazioni: quante volte ci è realmente capitato, o ci capita – e la domanda è retorica – di dover specificare che qualcuno è "bianco", o appartiene al gruppo dei "bianchi"?»
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