Assunto il comando assoluto, il colonnello Scholl dà inizio al piano di distruzione degli impianti industriali della città. Guidati da fascisti, i tedeschi smantellano pezzo per pezzo macchinari, portano via tutto ciò che è trasportabile, poi completano la rovina con l’esplosivo e con le fiamme.
«Così all’Alfa Romeo – racconta Nino Aversa – alla Cellulosa Cloro Soda, alle Cotoniere Meridionali, ai cantieri Vigliena, alle industrie Navali Aeronautiche Meridionali, alle Vetrerie ed a tutti gli altri opifici minori… Durava ancora la devastazione della zona industriale ed occidentale, quando nella zona orientale gli impianti dell’Ilva e dell’Ansaldo, del Silurificio e di Armstrong furono fatti saltare… Poi fu la volta della Navalmeccanica e di tutto quanto esisteva nel porto, installazioni, impianti, merci depositate in terra ferma o su chiatte. Il carburante scorreva a fiotti e portava le fiamme un po’ dappertutto, il mare stesso ardeva ed i sinistri bagliori si riflettevano tutto all’intorno. I macchinari più delicati della Navalmeccanica, per salvarli dal pericolo delle incursioni, erano stati dal porto trasportati nelle capaci grotte di Villa Gallotti a Posillipo. Furono distrutti minuziosamente, con scientifica precisione… Il pontile di Bacoli, il ponte di San Rocco a Capodimonte furono fatti saltare. Il giorno 20… cominciò la distruzione non più della periferia, ma dello stesso nucleo centrale della metropoli» (da “Napoli sotto il terrore tedesco“, Maone, 1943).
Vengono saccheggiati depositi di viveri, magazzini di vestiario, dati alle fiamme grandi alberghi: viene sottratto alle chiese un prezioso patrimonio di ori e di opere d’arte. Napoli è avvolta in quei giorni dal denso fumo degli incendi e di tanto in tanto scossa dallo scoppio improvviso delle mine.
Il 13 settembre veniva pubblicato il drastico proclama emanato il giorno prima dal Comando tedesco:
1. Con provvedimento immediato ho assunto da oggi il Comando assoluto con pieni poteri della città di Napoli e dintorni.
2. Ogni singolo cittadino che si comporta calmo e disciplinato avrà la mia protezione. Chiunque però agisca apertamente o subdolamente contro le forze armate germaniche sarà passato per le armi. Inoltre il luogo del fatto e i dintorni immediati del nascondiglio dell’autore verranno distrutti e ridotti a rovine.
Ogni soldato germanico ferito o trucidato verrà rivendicato cento volte.
3. Ordino il coprifuoco dalle ore 20 alle ore 6. Solo in caso di allarme si potrà fare uso della strada per recarsi al ricovero vicino.
4. Esiste lo stato d’assedio.
5. Entro 24 ore dovranno essere consegnate tutte le armi e munizioni di qualsiasi genere, ivi compresi i fucili da caccia, le granate a mano, ecc. Chiunque, trascorso tale termine, verrà trovato in possesso di un’arma, verrà immediatamente passato per le armi. La consegna delle armi e munizioni si effettuerà alle ronde militari germaniche.
6. Cittadini mantenetevi calmi e siate ragionevoli. Questi ordini e le già eseguite rappresaglie si rendono necessarie perché un gran numero di soldati e ufficiali germanici che non facevano altro che adempiere ai propri doveri furono vilmente assassinati o gravemente feriti, anzi in alcuni casi i feriti anche vilipesi e maltrattati in modo indegno da parte di un popolo civile.
Napoli, 12 settembre 1943 firmato SCHOLL Colonnello»
Le “già eseguite rappresaglie” di cui parlava il manifesto erano la somma dei feroci delitti compiuti dai tedeschi nel pomeriggio della domenica di sangue.
Il proclama non ebbe alcun risultato, le armi quelle vere non furono consegnate, neppure quando i tedeschi prorogarono il termine della consegna.
La gente risponde con una beffa, e vengono consegnanti solo vecchi sciaboloni, pistole arrugginite, fucili inservibili e pugnali da «ardito».
I fascisti di Tilena fanno affiggere un manifesto, in cui si promettono 3.000 lire al mese per chi si arruoli nella «milizia»: solo 300 giovani si presentano, ed alcuni diserteranno poco dopo.
Dal 13 sino al 27 settembre la città, come nave assaltata dai pirati, restò in balia dei tedeschi che continuarono metodicamente il saccheggio dei negozi, dei magazzini, la distruzione degli impianti tecnici-industriali e di tutto ciò che non riuscivano a portar via. Il loro scopo era quello di fare trovare agli Alleati avanzanti da Salerno una città ridotta ad un ammasso di rovine, priva di risorse, di depositi, di viveri.
Per i napoletani che difendevano le loro case, i loro averi, il diritto all’esistenza, furono 15 giorni di martirio, di violenze feroci, di fucilazioni. Non vi fu giorno che non fosse segnato da scontri e conflitti con i tedeschi, ogni quartiere ebbe il suo episodio di eroismo, ogni casa la sua croce.
Il 24 settembre il Comando tedesco ordinava lo sgombero di tutte le zone della città e della provincia nell’ambito di 300 metri lungo la fascia costiera del litorale. Dicevano di voler organizzare una “zona militare di sicurezza“, assai più probabilmente i tedeschi volevano avere dello spazio libero per predisporre le opere di mina e devastazione prima di abbandonare la città; comunque era evidente che gli Alleati stavano avanzando. L’ordine di sgombero colpiva oltre 100 mila persone che in poche ore dovettero sloggiare, abbandonando quasi tutto, trasportando poche masserizie nei ricoveri, nelle grotte, nei sottoscala.
La rabbia dei nazisti per il fallimento del servizio obbligatorio venne espressa nel manifesto del 26 settembre emanato dal comandante Scholl, che gridava al sabotaggio e minacciava di fucilare all’istante i contravventori:
Al decreto per il servizio obbligatorio di lavoro hanno corrisposto in quattro sezioni della città complessivamente circa 150 persone, mentre secondo lo stato civile avrebbero dovuto presentarsi oltre 30.000 persone. Da ciò risulta il sabotaggio che viene praticato contro gli ordini delle Forze Armate Germaniche e del Ministero degli Interni Italiano. Incominciando da domani, per mezzo di ronde militari, farò fermare gli inadempienti. Coloro che non presentandosi sono contravvenuti agli ordini pubblicati, saranno dalle ronde senza indugio fucilati.
Il Comandante di Napoli Scholl
Il giorno dopo, il 27 settembre, proprio com’era stato annunciato dal manifesto, i tedeschi come orde infuriate, invadevano le case, fermavano i tram, bloccavano le strade, razziavano gli uomini, vecchi, giovani, persino ragazzi, fucilavano sul posto chi tentava il minimo gesto di resistenza o veniva trovato in possesso di un’arma.
Ma il terrorismo tedesco anziché il panico, provocava la ribellione. L’odio si accumulava, la rivolta covava e saliva di ora in ora. L’istinto di conservazione aveva il sopravvento; spinti dalla disperazione, posti a scegliere tra la vita e la morte, i napoletani sceglievano il combattimento per la vita.
A questo punto, per i napoletani non c’erano alternative: se volevano sfuggire alla deportazione dovevano combattere contro i tedeschi e impedire che attuassero i loro piani. I giovani che dovevano essere “mobilitati” per il lavoro obbligatorio in Germania, furono spinti a “mobilitarsi” per difendere la loro vita. Il Comando tedesco aveva fornito così i combattenti per l’insurrezione patriottica.
Cosi, senza essere né preparata né organizzata, scoppiò l’insurrezione di Napoli.
Ma la rivolta non piovve dal cielo improvvisa come un temporale d’estate, si sviluppò su di un terreno che era stato preparato durante vent’anni. Napoli era una delle città italiane dove l’antifascismo aveva dimostrato la sua vitalità sia nell’ambiente intellettuale sia in quello della classe operaia.
Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Arturo Labriola, Roberto Bracco, Roberto Marvasi, Emilio Scaglione ed altri, sia pure in modo diverso e non sempre conseguente, erano rimasti durante il periodo della dittatura, antifascisti, non si erano piegati né alle lusinghe, né alle minacce, mentre l’opposizione comunista non era rimasta in “attesa che la bufera passasse”, ma aveva sviluppato attivamente la lotta nelle fabbriche e tra i lavoratori per opera soprattutto di Emilio Sereni, Giorgio Amendola, Manlio Rossi Doria, Eugenio Reale, Ciro Picardi, Salvatore Cacciapuoti, Valentino Ventura e molti altri.
Seppure talvolta con lunghi periodi di interruzione, la stampa clandestina era stata diffusa nelle officine e nei quartieri operai fin già dal 1927. 65 i napoletani condannati dal Tribunale speciale e centinaia i confinati. Un periodico clandestino dal titolo: Il Proletario organo dei lavoratori comunisti veniva diffuso sin dal gennaio 1943, il n° 10 del 24 giugno aveva dato notizia di agitazioni operaie alla Navalmeccanica.
Anche a Napoli era stato costituito il Comitato unitario del Fronte di Liberazione nazionale.
All’8 settembre, molti ex prigionieri alleati e militari italiani, per sfuggire alla cattura dei tedeschi, si erano nascosti nei diversi quartieri della città e della periferia. Soltanto nei pressi della casa di Emilia Scivoloni in via Nuova Camaldoli ve n’erano nascosti nelle grotte più di un centinaio. Altri si trovavano a Ponticelli, a S. Martino, aMergellina. Il 21 settembre i tedeschi affissero un’ordinanza con la quale promettevano mille lire ed una quantità di prodotti alimentari a chi avesse consegnato alle autorità un prigioniero alleato. Il pane mancava, la fame era molta, ma non risulta che un solo prigioniero sia stato denunciato o consegnato nelle mani del nemico.
Una parte degli ex prigionieri e dei militari italiani datisi alla macchia erano armati e nelle giornate che precedettero l’insurrezione vennero organizzati dagli antifascisti e dai patrioti dei depositi di armi. Sin dal 15 settembre a Poggioreale una certa quantità di armi e munizioni venne sottratta dalla fabbrica Mira Lanza ove era accasermato un reparto d’aviazione italiano, e nascosta nello scantinato di un palazzo al Vasto. Altre armi vennero prelevate con complicità e stratagemmi diversi dai depositi delle Fontanelle e delle zone del Vomero.
La città sconvolta era alla fame, il gas non c’era più, l’acqua mancava, per dissetarsi i cittadini dovevano ricorrere a pozzi sporchi e infetti od arrivare sino alla periferia; sotto le macerie e per le strade giacevano i cadaveri insepolti. Le malattie aumentavano, l’epidemia minacciava.
Una ventina di ricoverati all’ospedale degli Incurabili, in maggioranza ex confinati politici che si trovavano colà per malattia, si riunirono, discussero il da farsi e decisero: “Domani ci armiamo e scendiamo in strada”. In quei giorni erano riusciti a procurarsi ed a nascondere nelle cantine dell’ospedale e nelle casse della sala mortuaria, 3 mitragliatrici, alcune decine di fucili, cassette di proiettili e centinaia di bombe a mano.
di Carlo Fedele
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