(Attenzione: questo articolo contiene spoiler)
È molto difficile girare un film fatto quasi esclusivamente di scene erotiche se non pornografiche e avere poi il coraggio di definirlo romantico, sfacciatamente sensuale, dove anzi la sessualità non diventa mai gratuita. Ci è riuscito Lars Von Trier, che è un grande regista oltre che un infallibile provocatore, un amante della simbologia più sfrenata e un ipocondriaco senza speranza di salvezza. Ma, come tutti i geni, mi verrebbe da dire che le devianze hanno in lui saputo trovare sfogo nella più alta sensibilità artistica. In Nymphomaniac, ultima fatica che chiude la trilogia della depressione insieme ad Antichrist e Melancholia, tra le altre cose ricorre il leitmotiv della ricerca di un albero guida, che alla fine la protagonista (Charlotte Gainsbourg) troverà. Un tronco storto, non a caso, sulla cresta di una montagna: immagine che rimanda forse proprio a quelle deviazioni (o devianze, appunto) che acuiscono la sensibilità. Lars Von Tirer insomma sa perfettamente di essere un ‘albero storto’ e probabilmente gli piace esserlo: senza freni è proprio la sua volontà di trasporre nelle sue creazioni una visione personale e deformata della realtà, che attraverso lo schermo possa diventare condivisa, collettiva.
Naturalmente è stato scritto e detto moltissimo su Nymphomaniac, perché nel 2014, nonostante tutto ciò che siamo abituati a leggere sui giornali, girare un film, scrivere un libro o servirsi in qualche modo dell’arte per parlare di sesso (e di un certo modo di farlo) fa ancora inspiegabilmente scalpore. Esperimenti come questo solleticano e solleticheranno sempre la nostra immaginazione, la nostra più morbosa curiosità; questo naturalmente un artista scaltro e raffinato come Von Trier lo sa perfettamente: ecco perché, per la locandina del film, ha scelto di proporre le fotografie dei protagonisti del cast nel momento dell’orgasmo. Ma ciò che mi interessa dire su Nymphomaniac - diviso in due volumi per un totale di circa quattro ore di girato senza, tuttavia, il beneficio delle scene tagliate – è che è ben lontano dall’essere un film pornografico. Tutt’altro, attraverso il sesso e le sue degenerazioni, mi pare che al suo interno si parli soprattutto d’amore, della rivendicazione della sessualità e del diritto che ogni individuo ha di interpretare – anche e soprattutto attraverso l’atto sessuale – il romanticismo. In una delle scene del primo volume, infatti, una delle amiche di Joe (questo il nome della protagonista, che a lungo nel film viene interpretata da giovane dalla rivelazione Stacy Martin) le dice all’orecchio una frase che sarà quasi profetica per tutto lo svolgimento della storia: «The secret ingredient of sex is love» (L’ingrediente segreto del sesso è l’amore). A poco valgono, perciò, tutte le divagazioni che nella sceneggiatura cercano di convincerci che si stia parlando di altro, che sia la perversione o per l’appunto la ninfomania il vero tema centrale del film. Naturalmente Von Trier gode nel guidare lo spettatore in questa sorta di casa degli specchi: finge di crederci lui stesso, per un attimo, allestendo l’intreccio come se si trattasse davvero di un combattimento tra bene e male, tra innocenza e spregiudicatezza, tra spiritualità e blasfemia. La Joe cinquantenne, infatti, è incaricata di raccontare della sua vita sessuale a Saligman (Stellan Skarsgård), un acculturato e attempato signore che la trova all’inizio del film sanguinante in un vicolo e le offre ospitalità in casa sua. Saligman è un uomo perbene, amante della filosofia, dell’arte e della letteratura: è il doppio che serve a Joe per esibire ed esternare tutta la sua perversione, tutto il suo peccato. Diventa ancora più semplice se Saligman dichiara perfino la sua verginità, la mancanza totale, nell’arco di una vita, di desiderio sessuale: ecco che con pochi elementi Von Trier ha istituito un teatro su cui danzano Lucifero e Gesù Cristo, il sacro e il profano. Le dicotomie tornano, si inseguono, si afferrano, si perdono: da un lato incalzano pezzi di musica classica, dall’altro il più cupo metal dei Rammstein; da una parte vige l’insistente tentativo di Saligman nel riportare tutto ciò che ascolta ad una dimensione simbolica/culturale, dall’altro Joe che lo combatte anteponendogli un racconto di istinti bassi e incontrollati. Per non parlare della scena in cui la giovane Joe, assistendo alla morte del padre in preda ad una specie di delirium tremens, ammette indecorosamente: «I lubricated».
Nella casa degli specchi continua a lungo il gioco delle illusioni, coronato dall’esagerazione più sfrenata: citazioni che vanno dal numero di Fibonacci al tritono (o intervallo del diavolo), dalFaust di Mann alle divagazioni sulla pesca con la mosca, dalla polifonia di Bach a Freud, Wagner, Poe ed altri. Fino alla capacità consueta di Von Trier (chi ha visto Antichrist lo ricorderà perfettamente) di coronare questo incessante e meraviglioso delirio poetico con suggestioni, visioni, simbologie al limite del fantastico (nel film precedente erano animali parlanti, qui per esempio alla dodicenne Joe appaiono le visioni di Messalina e della Meretrice di Babilonia). Inaspettatamente il regista cita anche se stesso in una sequenza in cui, sulle note della bellissima aria di Händel Lascia ch’io pianga, esattamente come in Antichrist, il figlio della Gainsbourg rischia di precipitare dalla finestra lasciata aperta durante una nevicata mentre la madre sta avendo un orgasmo. Tutto perché la sessualità assuma un ruolo centrale e continui ad apparire, nell’enorme mistificazione che il regista finge di assecondare, un atto di peccato, una torbida assunzione e ammissione di colpa.
Nel frattempo, mentre per quattro ore il film ci propone lunghissime sequenze pornografiche di ogni genere – dalla sodomia al masochismo, dal sesso occasionale al lesbismo – davanti ai nostri occhi è stata celebrata l’innocenza, la purezza dell’amore. Quel golden heart protagonista invece di un’altra trilogia di Von Trier – quella, appunto, del cuore d’oro, di cui fanno parte Le onde del destino, Idioti e Dancer in the dark. In Nymphomaniac vige un sotto testo nemmeno troppo difficile da individuare infatti: quello celebrato proprio nelle Onde del destino, in cui l’amore – tormentato, disperato, al limite del religioso – della protagonista riusciva a diventare quasi un personaggio a sé, grazie anche alla magistrale interpretazione di Emily Watson (Bess). La scapestrata Joe, che all’inizio della storia vediamo salire su un treno e cominciare ad avere rapporti casuali con uomini appena incontrati solo per vincere un sacchetto di cioccolatini, è in verità una donna sensibile da sempre e per sempre innamorata del suo primo grande amore Jerôme (Shia LaBeouf). È attraverso di lui che le viene data la possibilità di spiegarsi, di svelare quel mondo intimo e inesplorato delle donne di cui molte di loro hanno e avranno sempre timore di raccontare: la perdita del desiderio, l’incapacità di essere madre, il bisogno sfrenato di essere amata, i disturbi fisici, le irritazioni genitali – elementi che talvolta possono (e vogliono forse) essere scambiati come un’irrimediabile sconto della pena, la peggiore: il bisogno d’amore a prescindere dal sesso.
«Io amo la mia fica e la mia sudicia e sporca lussuria» Joe, insomma, è una specie di femminista, e di nuovo Von Trier, passando dalla porta con la serratura più semplice (la convinzione che una donna, grazie alla propria vagina, è più in alto dell’uomo nella piramide sociale), vuole celebrarla. Prima l’accompagna all’inferno, poi le dà la possibilità di esprimersi in tutta la sua innocenza. Ecco perché non è un caso che le sarà affidato il compito di rovesciare ogni certezza quando, improvvisamente, mentre per tutto il film ella ha cercato di convincere il suo uditore della propria sordida dipendenza combattendo la tenace comprensione di Saligman, i ruoli si ribaltano. Lui cerca di abusare di lei («Ma sei stata con centinaia di uomini»), lei gli spara con la pistola con cui, la notte in cui è stata ritrovata, aveva cercato di uccidere l’ex marito. Joe dice quindi fermamente di no spiazzando lo spettatore, che immediatamente coglie il vero significato del film: quello secondo cui la sessualità, anche se deviata, è la più alta e massima forma di libertà, di scelta. Gesù Cristo è quindi diventato dannato, il diavolo è stato santificato: è una lettura diNymphomaniac del tutto personale che in ogni caso indugia per certo su questi aspetti contrastanti ma facenti parte irrimediabilmente di un unico.