Eravamo una famiglia felice. Mio padre lavorava nei pastifici e disponeva di un reddito sicuro, mia madre, casalinga, si occupava della famiglia composta, oltre che da me, da altre cinque sorelle ( Lucia, Teresa, Francesca, Pasqualina e Maria) tutte più grandi di me e quindi io ero l’unico maschio, prediletto della famiglia a cui tutti volevano bene e guai a chi mi faceva arrabbiare; questo anche in considerazione del fatto che mia madre aveva perso un altro figlio maschio quando questi aveva 16 anni. Abitavamo in Vico Principe (attuale Vico Rosselli) nel quartiere Provolera a ridosso della chiesa del Carmine dove la domenica mia madre mi portava con sé per la messa. Ricordo il ripetersi della solita stessa scena con mia madre, che dopo aver cambiato una lira in centesimi, la distribuiva ai poveretti seduti sul sagrato della chiesa e sempre ripetendo “sollievo all’anima di mio figlio Rosario”. Al ritorno a casa, mio padre mi portava a comprare “Il corriere dei piccoli”; tra i personaggi del giornalino ricordo ancora il signor Bonaventura. Un altro classico domenicale era quello che, immancabilmente, all’ora di pranzo, passava un vecchietto con una sacca di pezza per chiedere un poco di carità e mia madre, immancabilmente, gli faceva un pezzo di pane con una braciola (fetta di carne arrotolata imbottita con aromi vari e cotta nella salsa) e gliela dava sempre ripetendo la stessa litania: “sollievo all’anima di mio figlio Rosario”. Questa armonia venne spezzata la sera del 17 febbraio 1925; ricordo quella data perché in quel giorno si ripete, tutt’ora, il rituale dei falò accesi in onore di S. Antonio Abate e c’è quasi una gara tra quartieri per quello più grande;a quei tempi, in assenza del riscaldamento a gas ogni famiglia pigliava un poco di fuoco da mettere nel braciere. Fu proprio durante questa serata di festa che mia madre avvertì un dolore al petto tanto da doversi ritirare e mettersi a letto; mio padre, al ritorno dal lavoro,vista la cosa, cercò un medico ma tutto quello che si sentì dire fu <vengo domani mattina>. Nel mentre papà era in cerca del medico, noi figli eravamo intorno al braciere quando d’improvviso mia madre mi chiamò a sé e mi parlò; ritornai, alquanto scosso, vicino al braciere con le mie sorelle che vollero sapere ed io riferii quanto mi era stato detto:<< io adesso muoio, ricordati sempre di me>>. Quella notte mia madre morì; se ne accorse mia sorella Lucia. Quando il dottore è venuto, è stato solo per la constatazione di morte ed asserì che comunque la sua venuta, la sera precedente, sarebbe stata inutile in quanto mia madre aveva avuto un infarto. Da quel momento le cose cambiarono; mia sorella Lucia pigliò il posto di mia madre, però non ci fu più chi mi accompagnava a scuola; iniziai a conoscere la solitudine. Era l’inizio del 1925; quello fu un anno maledetto perché a novembre dello stesso anno morì anche mio padre che non si era mai ripreso dal dispiacere della morte di mia madre…..e quindi rimanemmo soli. Per l’interessamento di alcuni, le mie sorelle vennero messe in orfanotrofio a Pompei; rimanemmo fuori solo Lucia, che di lì a poco si sarebbe sposata, ed io che dovevo farle compagnia; vivevamo con quel poco che Lucia riusciva a guadagnare facendo la sarta e qualche pacco di pasta che portava il fidanzato che come quasi tutti a Torre Annunziata lavorava in un pastificio. Le cose pigliarono una brutta piega perché io mi inselvatichivo sempre più diventando sempre più ribelle; la strada era diventata la mia scuola. Un giorno mi capitò di incrociare per strada il mio maestro di scuola, prof Lettieri; per evitarlo corsi ad una fontana e facevo finta di bere ma quello era lì impalato finché mi disse: hai finito? Mi chiese perché non frequentavo più la scuola e, alle mie spiegazioni si interessò di me e mi invitò ad andare a casa sua dove mi faceva studiare dai libri del figlio ma io avevo vergogna di come ero vestito e poi la mia mente era altrove ed allora dopo le prime volte non ci sono più ritornato anche se poi serbo nel cuore la gratitudine delle attenzioni che aveva avuto nei miei confronti. Una volta mi capitò di incontrare un fratello di mio padre; scambiammo quattro chiacchiere ed alla fine mi disse che, se la cosa mi faceva piacere, potevo andare a casa sua a pranzo ma dopo le prime volte la moglie mi disse: ma tu vieni sempre qui a mangiare? Non hai altri zii?. Ero ragazzo ma capii l’antifona e non ci misi più piede. Che differenza tra i parenti e gli estranei! Un periodo tranquillo fu quello durante il quale frequentai la chiesa della Parrocchiella (Immacolata) di don Pasqualino Dati al quale una sorella di mio padre aveva spiegato tutta la situazione di miseria in cui versavamo io e mia sorella. Don Pasqualino era molto prodigo di cose essendo lui stesso appartenente ad una famiglia agiata e fu ancora Lui a vestirmi per il giorno della Prima Comunione. Alla cerimonia partecipai da solo a differenza di tutti gli altri ragazzi che erano accompagnati dai genitori. Continuai a frequentare la chiesa ma venne anche il giorno delle nozze di mia sorella. Mio cognato, adducendo mille scuse, non volle tenermi in casa ed io iniziai a girovagare da una famiglia all’altra per trovare un letto in cui dormire finché, infastidito da questo girovagare non iniziai a frequentare una banda di scugnizzi che aveva la sua base in piazza della ferrovia, a ridosso del Comune. Veri delinquenti! Di notte si andava a dormire nei bidoni della ditta Correale e di giorno, per mangiare, ci si arrangiava con lavori di facchinaggio ma quando non capitava l’occasione di lavorare, si ricorreva al furto; nella migliore delle ipotesi si rimediavano quattro soldi di pane (per averne di più si pigliava quello nero) e due soldi di ricotta. Era pranzo, colazione e cena. Nel piazzale antistante la stazione ferroviaria vi erano in sosta le carrozzelle che aspettavano i viaggiatori in discesa dal treno e naturalmente il fatto che c’eravamo noi ad offrirci di portare i pacchi era un motivo di risparmio per il viaggiatore ma era anche motivo di contrasto con i cocchieri che perdevano un eventuale cliente per cui, a volte, ci rincorrevano per farci allontanare; era tutto parte della lotta per la sopravvivenza. Un episodio che mi è rimasto impresso di quel periodo avvenne un giorno che dal treno scese un viaggiatore con un pacco ed al quale io mi offrii di aiutarlo; man mano che si camminava il pacco diventava sempre più pesante, era una batteria della macchina, e se all’inizio avevo pensato di essermi guadagnato il pane, man mano che camminavo facevo progetti sempre più avanzati pensando a cosa poterci mettere dentro come companatico perché, pensavo, se la ricompensa sarebbe stata adeguata alla fatica, il signore mi avrebbe abbondantemente ricompensato. Dopo un paio di chilometri arrivammo a destinazione; il signore mi tolse dalle mani il pacco, mi ringraziò e chiuse dietro di sé il portone. Una rabbia infinita; avrei voluto urlare, piangere, sfogare ….ma avevo iniziato ad abituarmi alle avversità della sorte. E venne il giorno che mi cambiò la vita: insieme agli altri componenti della banda stabilimmo di andare verso il cimitero ed oltre, una zona in cui adesso si è costruito ma allora vi erano solo masserie ed un casotto del passaggio a livello della Circumvesuviana; anche altre volte c’eravamo stati in quella zona e ci era andata bene perché si era sempre rimediato una gallina o un coniglio o frutta da vendere e così fare soldi per mangiare. Quel giorno andò diversamente perchè nel mentre stavamo cogliendo la frutta ci accorgemmo del padrone appostato che aspettava solo il momento buono per intervenire, buttai quello che avevo raccolto e via. Noi scappavamo, io più veloce di tutti ma quello superava gli altri e puntava verso di me finché non arrivammo al casotto del passaggio a livello dove pensavo di trovare ricovero e protezione ma quello, noncurante della presenza e delle preghiere del guardiano del passaggio a livello, mi riempì di mazzate, non si fermò neanche quando stavo a terra e continuava a dire: S’addà levà ‘o vizio ‘e rrubà(deve togliersi il vizio di rubare). Questa frase mi rimase impressa nella mente anche quando tutto era finito e rimuginavo tra me stesso che quello aveva ragione e tra l’altro non diceva che mi bastonava perché gli avevo rubato ma perché, importante, dovevo togliermi il vizio di rubare; vedevo in questo la mano di mio padre. Quando di sera ci incontrammo, gli amici mi sfottevano perché, dicevano, quello (il contadino) li superava e non li toccava per venire a prendere me e ripetevano: ma chi gli ha detto che tu sei il capo! Sentivo che dovevo pigliare una decisione e pensavo a come togliermi di mezzo da quella compagnia anche perché mi sentivo colpito nell’orgoglio. Così la sera mi venne di andare a dormire sotto al portone che era stata la mia casa e dove adesso c’era mia sorella Lucia; nello stesso stabile c’era una signora, Immacolata, vedova con una figlia, che faceva l’infermiera all’ospedale; come ogni sera al ritorno dal lavoro lei passava dalla sorella perché quest’ultima le teneva la figlia. La fortuna volle che io ero già nel portone quando Immacolata si ritirò e rischiò di inciampare su di me al buio. Dopo un primo attimo di paura, la signora mi riconobbe e mi fece accomodare da lei, si meravigliò nel vedermi in quello stato e non potetti fare a meno di raccontarle la mia condizione. Mi rifocillò e mi fece mangiare, infine mi fece dormire in un lettino: era un bel po’ di tempo che non dormivo su un materasso. La mattina successiva lei parlò con mia sorella esprimendo l’idea di tenermi con sé la notte mentre di giorno avrei potuto approfittare dell’assenza di mio cognato per mangiare qualche cosa da mia sorella. Trovai un poco di pace ma ormai avevo deciso quello che doveva essere la mia vita e cercai e trovai lavoro; naturalmente nei pastifici. La prima paga settimanale fu di 15 lire. La sera che rientravo mia sorella mi faceva mangiare e poi andavo a dormire dalla signora Immacolata. Ma anche questa fase dovette essere superata perché la signora incontrò un ricco vedovo che volle sposarla e dovette trasferirsi a Napoli. Rimasi con mia sorella ma questa volta anche a dormire perché mio cognato, in cambio di parte dei soldi che guadagnavo, mi accolse in casa stabilmente. Avevo ormai 15 – 16 anni e con i soldi che mi rimanevano mi facevo passare qualche sfizio: mi piaceva vestire e poi fare acquisti come quella volta che comprai una bella macchina fotografica con la quale mi divertii tanto a scattare foto solo che alla fine tirai fuori il rollino pensando di trovarci le foto fatte; fu il commerciante, al quale mi rivolsi furioso, a spiegarmi quale doveva essere la procedura. Le cose buone durano poco; anche mia sorella Lucia morì in seguito alla comparsa di un nodulo al seno e nonostante l’operazione alla quale fu sottoposta. Sul lavoro ero capace e volenteroso e questo mi aveva permesso di aumentare il guadagno; quello che inizialmente guadagnavo in una settimana ora lo guadagnavo al giorno per cui non mi fu difficile trovare famiglie che, in cambio di denaro, mi mettevano a disposizione un letto ed alla prima contrarietà ero già pronto a cambiare famiglia. Avevo anche voglia di imparare così con l’aiuto del Maestro Lettieri (Ricordate?) frequentavo le scuole serali e riuscii non solo a prendere la licenza elementare ma anche a frequentare qualche anno delle scuole industriali. Nel girovagare capitai a dormire a casa di una sorella di mio padre, quella aveva una figlia (Giuseppina) che mi piacque da morire e con la quale trovai l’intesa; in seguito diventerà mia moglie. Avevo anche ristabilito i contatti con le mie sorelle chiuse, a suo tempo, in orfanotrofio e devo dire che la Superiora mi prese a ben volere. Intanto succede che a Torre ritorna anche la signora Immacolata, nel frattempo rimasta di nuovo vedova, con la figlia Assuntina e, per cercare di me, pensa bene di rivolgersi all’orfanotrofio dove erano le mie sorelle; la vedova aveva dei progetti che riguardavano me e sua figlia. In un primo momento non ebbi il coraggio di esternare i miei legami con quella che poi sarà mia moglie ma, una volta che lei mi affrontò e mi chiese il perché di tanta freddezza nei confronti della figlia, trovai il coraggio di parlare e spezzare così questo vincolo che era fatto più di riconoscenza che di amore. Non ho più rivisto la signora Immacolata perché lei, anche per avvicinarsi alle ricche proprietà che le aveva lasciato il secondo marito, andò via da Torre non prima di aver salutato la Superiora che, messa al corrente delle circostanze, volle anch’essa conoscere la mia fidanzata alla quale, esortandola a volermi sempre bene, raccontò che avevo dato un calcio alla fortuna per lei. Trascorse un periodo tranquillo; lavoravo fisso nel pastificio “Montuori”, avevo lasciato la casa della mia fidanzata per evitare le chiacchiere dei vicini ed avevo fittato giusto una stanza con servizi; le mie sorelle dall’orfanotrofio erano uscite per sposare ed io ero tranquillo quando mi arrivò una lettera di mia sorella Pasqualina che era andata in sposa ad un calabrese e mi avvertiva di essere incinta ma, cosa grave di essere rimasta vedova. Mi chiedeva se ero disposta ad accoglierla perché non avendo legami, lei non voleva rimanere dove si trovava. Pur nella ristrettezza della casa, l’accolsi. Venne il tempo della chiamata alle armi e dovetti lasciare la casa mentre mia sorella fu accolta da mio suocero riconoscente di tutte le spese che io facevo per la sua famiglia; ero di stanza a S. Maria Capua Vetere e facevo l’attendente del tenente colonnello Meriani anche lui di Torre Annunziata; ritornavo di rado a casa perché non avrei avuto dove dormire ed infatti, quando capitava, andavo a dormire in albergo ma la cosa importante era che riuscivo a portare a casa ogni ben di Dio: formaggio, uova, carne… Nel momento del congedo il colonnello mi voleva convincere a firmare un documento per raffermarmi e fare un corso da sergente perché, diceva lui, di lì a poco ci sarebbe stata la guerra ed io mi sarei trovato con un grado ma non mi lasciai convincere perché, gli dissi, a casa mia sarei stato generale. L’8 dicembre mi congedai e già nei primi giorni successivi tornai dal Commendatore Montuori per riprendere il lavoro. Passate le festività natalizie fui chiamato in ufficio dove il Principale mi chiese se ero disposto ad accettare un lavoro alla Mostra d’Oltremare dove si sarebbe dovuto aprire un padiglione alimentare e quindi si sarebbe dovuta impiantare una macchina di pastificazione nuova. Finora, per la lavorazione della pasta la farina si metteva nell’impastatrice assieme all’acqua dopo di che si passava l’impasto nella gramolatrice da dove finiva alle presse dalle quali usciva la pasta secondo il formato prescelto. Il passaggio da ognuna di queste fasi a quella successiva aveva bisogno dell’intervento di lavoratori. Con la nuova macchina venivano annullate tutte queste procedure poiché la macchina gestiva da solo tutta la lavorazione ed il lavoro dell’operatore si limitava al dosaggio degli ingredienti ed al posizionamento delle trafile a seconda dei formati che si volevano ottenere; questo sarebbe stato il mio lavoro oltre naturalmente darne spiegazioni ai visitatori interessati. Naturalmente accettai; l’istruzione sulle operazioni da svolgere, che doveva essere anche una forma di prova delle mie capacità, durò una settimana e mi fu fatta dall’ing. Bertagni che , a fine corso diede parere favorevole. Fui chiamato in direzione e non potevo credere alle mie orecchie: mi offrirono un contratto di 50 lire al giorno per trenta giorni lavorativi. Da dire che inizialmente non avevo compreso, pensavo si trattasse di 50 lire a settimana e quindi mi ero mostrato deluso ma quelli mi dissero: come fai a rifiutare una paga giornaliera di questa entità? Ero contento e pensavo sempre alla canzone che diceva: se potessi avere 1000 lire al mese…. io ne guadagnavo 1500. A quel punto era venuto il momento di sposarmi; mia moglie, naturalmente era felice, molto meno mio suocero che si rammaricava del fatto che non aveva niente da dare in dote alla figlia. Naturalmente per me che vivevo in quella casa ormai da tempo non era una novità , ero preparato, ad allora risposi offrendogli la somma di tremila lire per le spese necessarie a comprare i mobili e qualche servizio di piatti e biancheria. I problemi sorsero quando ci recammo in chiesa per le pratiche del matrimonio; il parroco non voleva sposarci perché eravamo cugini ed a niente servivano le suppliche, le pressioni, il pianto della mia fidanzata ed allora gli dissi: ci vediamo tra qualche mese quando ritorniamo e lei sarà incinta, vedremo se anche allora ci negherete il matrimonio. Solo allora il prete si mostrò consenziente, ci fece espletare le pratiche e sposammo il 25 maggio del 1940. Ritornai ad abitare nel mio vecchio quartiere, la Provolera in via Asilo Infantile, avevo una moglie, una casa… insomma di nuovo una famiglia; stavamo veramente in grazia di Dio. Mia sorella Pasqualina con la figlia viveva con me. A giugno del ’41 nacque il primo figlio al quale naturalmente fu dato il nome di mio padre:Aniello. Ad aprile del ’43 nascerà Carmela, la mia secondogenita. Ma successe che Mussolini dichiarò guerra alla Francia e conseguentemente di lì a pochi mesi ricevetti la cartolina di richiamo alle armi. Mi presentai al mio vecchio colonnello il quale inizialmente mi rimproverò per non aver accettato il suo consiglio di frequentare il corso sottufficiali ma poi gli spiegai come ero riuscito a sistemarmi ed allora si mostrò molto comprensivo lasciandomi addirittura ritornare a casa con la promessa che appena avessi ricevuto un telegramma mi sarei precipitato al reparto. Mio suocero mi tranquillizzò anche a riguardo di mia sorella dicendo che non solo mia moglie sarebbe rientrata a casa sua ma avrebbe accolto anche mia sorella Pasqualina con la figlia. Anche il telegramma arrivò e dovetti rientrare in caserma però rimasi ancora per diverso tempo a Santa Maria Capua Vetere e ritornavo a casa ogni sabato. In quel periodo feci un poco di contrabbando. Portavo formaggi e carne che mia moglie rivendeva tanto che quasi ogni mese riuscivo a fare un buono fruttifero di 500 lire fino ad accumulare più di tremila lire. Con questo andazzo siamo arrivati al novembre del ‘42, le cose per l’Italia non si mettevano bene e quindi fui messo in lista di partenza con il IV battaglione con la mia qualifica di radiotelegrafista con destinazione Francia e specificatamente Tolone. Il 13 di Aprile del 1943 nacque la seconda figlia alla quale fu imposto il nome di Carmela come mia madre e mia suocera. Era il 6 giugno quando lasciai la famiglia per avviarmi alla stazione; ad accompagnarmi vi era mio suocero ma solo perché questo mi avrebbe dato la possibilità di avere ancora in braccio mio figlio Aniello; ricordo il pianto di mia moglie che rimase a casa assieme a mia sorella ed alla sua famiglia; Carmela dormiva. Nel mentre mi allontano, saluto gente del vicinato e mi rivolto a guardare la mia casa: non mi commuovo del pianto di mia moglie perché in quel momento la cosa che mi ossessionava era il destino dei miei figli che rischiavano di rimanere senza padre proprio come me; ed io sapevo cosa significava crescere senza una guida. Per tutto il tratto che ci separava dalla stazione non dicemmo una sola parola e quando alla stazione arrivò il treno passai a mio suocero mio figlio che incominciò a piangere; Presagiva quello che nessuno diceva? Rimasto solo in treno la mia mente fu assalita da molti pensieri ma sentivo che la mia preoccupazione era solo per i figli. Cosa poteva importare alle mie sorelle e cognati se fossi morto; avrebbero pianto un poco ma poi presi dalle loro famiglie mi avrebbero dimenticato. Per mia moglie valeva lo stesso ragionamento, avrebbe pianto fino a che non avrebbe trovato un altro. Solo i miei figli erano quelli che avrebbero sentito pesantemente l’assenza del padre. Avvertivo un odio contro tutti perché mi sentivo solo; sapevo di andare lontano e chissà se fossi poi tornato; mi vedevo dimenticato da tutti, mia moglie con un altro ed i miei bimbi che neppure si ricordavano di me. Dovetti per forza rassegnarmi e dopo una sosta a Roma e Genova arrivai a destinazione. A Tolone eravamo sistemati in piazza Champs de Mars ed avevamo i tedeschi come dirimpettai. Conobbi gente della provincia di Napoli con i quali iniziai un contrabbando di sigarette e cambio di soldi da franchi a lire; guadagnavo bene tanto che , avendo bisogno di cure, mi rivolsi ad un medico privato e tra onorario e medicine spesi molti soldi. Comunque di tanto in tanto facevo dei vaglia di 200 lire(era il massimo consentito) per mia moglie. E’ di questo periodo la notizia della morte di mia suocera, una donna con la quale non avevo mai legato anche se tra noi c’era la doppia parentela di suocera-genero e zia-nipote ma comunque la notizia mi dispiacque anche perché poteva essere una guida per la famiglia. La vita a Tolone scorre normale senza grossi problemi ed, anzi, in piena armonia con la popolazione locale e non manca neanche qualche passatempo. Ma ecco che l’8 settembre 1943 ci arriva la notizia che Badoglio ha chiesto l’armistizio; la situazione diventa all’improvviso pesante perché non ci sono certezze e nessuno, neanche il nostro comando, sa come comportarsi; in ultimo si accetta la proposta tedesca i cui termini sono: voi non avete mezzi per tornare in Italia ed a noi servono le vostre armi per continuare la guerra per cui consegnatecele e noi ci impegniamo a portarvi a casa. La proposta , anche se con molte riserve, soprattutto per evitare noie, viene accettata. Il tempo di prepararsi e si parte direzione Frejus dove si arriva dopo le ore 24.00; veniamo fermati da un blocco tedesco che, una volta esaminato il lasciapassare, dice che non ha nessuna validità perché porta la data del giorno precedente; a niente servono le nostre rimostranze, si ritorna indietro in direzione del campo di prigionia di Marsiglia da dove si riparte in treno stipati 50 soldati in ogni carro direzione Germania; per strada si effettuano alcune fermate per permetterci di fare qualche bisogno fino a che non si arriva a LIMBURG AN DER LAHN dove siamo sistemati in baracche con letti a castello e per mancanza di posti si dorme in due per ogni letto. La mattina successiva veniamo radunati in un cortile dove il capo del campo ci legge delle dichiarazioni di Mussolini che ci scioglie dal giuramento fatto al Re e ci invita ad arruolarci nella Repubblica di Salò ma nessuno accetta; rimaniamo nel campo dove c’erano anche altri prigionieri di varie nazionalità (francesi, polacchi, russi ed indiani) fino a che non ci imbarcano di nuovo nei carri ferroviari destinazione GLADBACH da dove poi con autocarri si riparte per un campo di concentramento a Colonia che sarà la nostra destinazione finale. La vita nel campo è quella di prigionieri senza diritti e senza tempo (quanto durerà questa restrizione?). La mattina, dopo la sveglia, c’è l’adunata che prevede la conta dopo di che siamo imbarcati su carri merci e portati ad una distanza di 7 Km in una località denominata NIPPES dove si trova una fabbrica di vagoni ferroviari (non so se è la località a dare il nome alla fabbrica o viceversa); arrivati a destinazione, ognuno di noi ha un tedesco come punto di riferimento che ti guida nel lavoro. Da questo punto di vista sono stato fortunato. Il mio <chef> è comprensivo e molte volte mi lascia il suo rancio ed altre cose che porto al campo per dividerle con gli amici;ricordo che una volta soffrivo atrocemente per il rigonfiamento di un molare, lui non se lo fece dire, chiese il permesso per entrambi di uscire dal campo e mi portò in una farmacia dove mi comprò del medicinale appropriato. Passa del tempo ed un giorno mi accorgo che si asciuga lacrime dal volto; mi spiega che il figlio sedicenne è stato chiamato alle armi. Dopo una settimana il caro <chef> non è venuto più al lavoro; impossibile sapere di più. La vita scorre tra un sotterfugio, una ruberia, un bombardamento fino all’arrivo degli americani ovvero fino alla fuga dei tedeschi che presagivano l’arrivo degli americani. Se devo dire cosa ha guidato la mia vita da prigioniero dirò certamente che sono stati i sogni, infatti: Attraversavo un periodo di disperazione, non si intravedeva la fine di questo periodo nero e della famiglia neanche una notizia quando una notte sogno di essere su una ripida salita che a stento riuscivo ad avanzare e quando, stremato, arrivo alla sommità ecco che trovo la bella sorpresa di trovare la mia famiglia che mi aspettava. La gioia mi fa svegliare ma dal significato che dò a questo sogno capisco che il destino mi è benevolo e che il ritorno a casa è assicurato. Una notte sogno di essere in fila con gli altri commilitoni pronti a salire sui carri che ci avrebbero portati a NIPPES al lavoro quando d’improvviso compare mia suocera che mi ordina di non salire sul carro e di non andare al lavoro quella mattina; le dico che se facessi quello che mi dice per me potrebbe essere la fine ma lei insiste e mi dice che parlerà lei stessa con <PORCELLINO> (il capo del campo al quale avevamo dato questo soprannome per il suo faccione e gli occhi piccolini). La mattina sono tormentato; ne parlo con gli amici e solo qualcuno mi segue (Scarpa Antonio e Meo). Ci nascondiamo nell’erba alta intorno al campo fino a che non veniamo scoperti ma proprio in quel momento si ode un rombo di aerei; erano tanti da oscurare il cielo e da lì a poco da quegli aerei vi fu una cascata di bombe sulla fabbrica di vagoni ferroviari dove lavoravamo. Questo avvenimento fece passare in terz’ordine la nostra mancanza anche perché quei pochi che tornarono la sera al campo narrarono di aver vissuto momenti spaventosi e si erano salvati solo perché avevano cercato scampo in un rifugio per civili. C’è anche un episodio della mia vita da prigioniero che ricordo frequentemente: avevamo pigliato l’abitudine, nei giorni in cui non si andava a NIPPES, di raccogliere della verdura che poi scaldavamo e ci aiutava a riempire lo stomaco. Quel giorno toccò a me fare da cuciniere mentre gli altri guardavano nel caso sopraggiungesse una ronda di tedeschi; fu proprio quello che accadde. Ma la verdura era quasi pronta e non volli abbandonarla ed allora , preso il barattolo con la verdura, mi misi a correre verso la baracca ma scivolai sulla neve e mi ritrovai con il viso scottato; passai dei brutti momenti e mi è rimasta una zona del viso in cui non cresce la barba. Il tempo passa ed ecco che una mattina di aprile del 1945, al risveglio, non troviamo più i tedeschi; erano scappati. Ci allontaniamo dal campo di lavoro cercando di rimanere insieme almeno quelli che eravamo stati solidali durante la prigionia, vaghiamo per i campi in cerca di mangiare e qualche volta chiediamo a qualche contadino che ci regala patate. Questo fino a quando non incrociamo una colonna di americani,era il 17 di marzo, che ci portano in un campo di prigionia a WIEDINEST dove già vi erano altri italiani (eravamo in 3000). L’ordine di trasferimento per un’altra struttura di prigionieri, quella di WUPPERTAL, arriva il giorno 25 marzo domenica delle Palme ed è nel mentre che ci viene distribuito del rancio per il viaggio che accade un episodio increscioso, da criminale: una squadriglia di bombardieri americani gira intorno al campo ed improvvisamente inizia un mitragliamento durante il quale rimane ucciso il sergente Biondi; un bravo ragazzo che ha la sfortuna di fermarsi ad un passo da casa. L’ultimo trasferimento prima del rientro in Italia è per Coblenza da dove si parte per il rientro in Italia l’8 luglio 1945. Ricordo la felicità in quel giorno; faceva un freddo che tagliava la faccia. Attraversammo l’Austria ed entrammo in Italia dal Brennero. All’incertezza della vita da prigionieri si somma l’incertezza di quello che troverò tornando a casa: i miei bimbi stanno bene? E mia moglie mi aspetta ancora? Mi credono morto o aspettano fiduciosi il mio ritorno? I primi italiani che incontrammo furono gli appartenenti ad un battaglione San Marco di guardia alla frontiera e furono loro i primi con i quali scambiammo informazioni di quello che era la reale situazione in Italia. Erano le 18.00; verso le ore 24 arrivammo a Bolzano dove c’erano ad aspettarci la Croce Rossa e sacerdoti che ci diedero una buona minestra e del pane con formaggio; la stazione era illuminata e la radio trasmise l’inno del Piave e la canzone <MAMMA>; fummo informati che il viaggio sarebbe stato difficoltoso a causa delle condizioni dell’impianto ferroviario e che le spese per il nostro rientro erano state sostenute tutte da Papa PIO XII ma tutto ciò non era importante perché eravamo storditi e nello stesso momento coscienti di essere fortunati a rientrare a casa. Questo scritto è tratto da racconti verbali fattomi da mio PADRE ma soprattutto dal diario che ha continuato a scrivere per tutto il periodo di guerra e che custodisco gelosamente.
Naviga negli articoli | |
Sono puttana e me ne vanto | Venere - Mi è impossibile dimenticarti |
|