Circa due milioni di italiani soffrono di attacchi di panico: na sindrome destinata a diventare uno dei disturbi psichici più diffusi fra la popolazione mondiale. Ma si può guarire.
Perché definisce l’attacco di panico una bugia del cervello?
Perché il problema non c’è, ma in realtà c’è. E crea quella netta linea di demarcazione e incomprensione tra chi soffre di attacchi di panico e chi non ne soffre. È vero che il pericolo non esiste, ma è altrettanto vero che chi prova un attacco di panico percepisce le stesse terribili sensazioni di chi si trova a combattere nel mezzo di una terribile emergenza. Il fatto è che tutto ciò non traspare all’esterno, ma purtroppo per il malcapitato, è confinato soltanto nella sua mente.
È lì che si accende rapidamente il codice rosso, la madre di tutte le emergenze e le paure, che non consente di riflettere ma soltanto di agire. Appare come una bugia perfetta, molto credibile, che lascia ben poco spazio ai dubbi. Una bugia che vive di trappole,
di tranelli molto ben congegnati, che farebbero capitolare chiunque, proprio perché assai convincenti.
Ma allora l’attacco di panico è una malattia del cervello?
È una malattia che fa parte dei disturbi di ansia. Ne conosciamo ormai l’identikit e ha un profilo di sintomi di tutto rispetto. È difficile non riconoscerla. Come dicevo, negli anni ottanta è stata inclusa nel Dsm. Fino ad allora le definizioni erano molto più vaghe e a volte distorte. Si parlava di “reazione di allarme”, “reazione di ansia”, “sindrome del cuore irritabile”, ecc. Ora, invece, viene riconosciuta come malattia vera e propria, come “disturbo da attacco di panico” (Dap).
Come si presenta l’attacco di panico e come è riconoscibile la prima volta?
Il primo attacco di panico è un’esperienza sconvolgente. La partecipazione emotiva con cui lo descrivono i pazienti è quella di “un incontro ravvicinato con un profondo senso di morte”. Alcuni lo descrivono come qualcosa di devastante perché irrompe improvvisamente, “a freddo”, spesso in una situazione di totale benessere, senza alcun tipo di circostanza che possa giustificarne l’insorgenza.
I racconti sono vari. Molti parlano di una crescente difficoltà respiratoria che, progressivamente, porta a un vero e proprio senso di soffocamento. Il paziente cerca di liberare il respiro con dei colpi di tosse, quasi per eliminare un corpo estraneo che gli impedisce di respirare. Subentra l’idea di essere sul punto di morire, di avere un infarto, a causa dell’accelerazione improvvisa della frequenza cardiaca, con sensazioni di tuffo al cuore, di aritmia. Il battito cardiaco rimbomba in tutto il corpo, tanto che il paziente può contare i propri battiti senza mettere le dita sul polso.
E poi brividi, sudorazione, oppure la sensazione sgradevolissima di qualcosa che nasce in prossimità dello stomaco e che poi velocemente sale verso l’alto. E, inoltre, un senso di confusione, di stordimento, la sensazione di poter impazzire, di perdere il controllo e il contatto con la realtà. Sono sintomi che durano pochi minuti, anche se il paziente ha una percezione dilatata del tempo, infinita. La prima cosa che fa, appena è in grado di muoversi, è di correre al pronto soccorso a chiedere aiuto.
Quello che prova in quel momento è una vera e propria tempesta chimica, biologica, neurovegetativa, che lo porta ad attivare tutti gli organi facendo appello alle sue migliori energie. È consapevole che sta affrontando qualcosa di veramente straordinario, perciò si reca al pronto soccorso, dove però non è infrequente che i suoi sintomi vengano erroneamente ricondotti ad una sindrome ipertensiva o cerebrale.
Perché al pronto soccorso, ancora oggi, non si riconosce un attacco di panico?
Perché si tende spesso a rilevare solo l’aspetto fisico del panico, senza però rendersi conto che l’epicentro di tutti quei sintomi è nel cervello, ed è da lì che bisogna partire, immediatamente. È, infatti, il cervello che scarica la maggior parte di quelle sostanze che poi si abbattono sul nostro organismo. Molto spesso questa tempesta viene interpretata e archiviata come una semplice crisi ipertensiva, o come una banale tachicardia.
Che cosa succede realmente nella nostra mente? Abbiamo parlato di una sentinella, l’amigdala. Perché viene allarmata?
Il primo attacco di panico può insorgere, per esempio, in un soggetto geneticamente predisposto, dopo uno stress prolungato o in seguito alla perdita di una persona cara. Quel sensore importante nel nostro cervello che è l’amigdala, già allertata per le ragioni sopra citate, interpreta una serie di segnali in maniera anomala. Ecco così che nasce la “bugia” nel cervello: in quel momento la persona è convinta che stia succedendo qualcosa di straordinario, che può mettere a rischio la sua incolumità, la sua vita. L’amigdala suona l’allarme e comincia a coinvolgere altre regioni del cervello: l’ippocampo, la corteccia prefrontale e la corteccia occipitale, ma anche altre aree vicine, informandole rapidamente che si sta verificando qualcosa di anomalo.
Sì, di anomalo, perché qualcosa di strano è accaduto urtando la sensibilità e la suscettibilità, già alte, di alcuni centri nervosi. A questo punto il cervello lancia un ordine esplicito: “combatti o fuggi perché la tua vita è in pericolo”. Si assiste a una grammatica conferma del nostro istinto di sopravvivenza, che ci fa urlare il desiderio di vivere.
In alcuni pazienti e in certi casi si verificano crisi ipertensive accompagnate dall’incremento della frequenza cardiaca; in altri può esservi un effetto opposto, fino a perdere i sensi.
Infatti, a volte, le emozioni sono talmente forti da modificare drasticamente l’afflusso di sangue al cervello, con conseguente transitorio abbassamento della pressione e alterazioni dello stato di coscienza, provocando la sensazione dello svenimento. Quando, durante un attacco di panico, si verificano fenomeni neurosensoriali di una certa intensità, può rendersi necessario distinguere questo disturbo da una sindrome comiziale, e in particolare da un’epilessia del lobo temporale.
Ci sono delle parentele fra gli attacchi di epilessia e gli attacchi di panico?
Dal punto di vista dei sintomi, il Dap e le crisi epilettiche sono facilmente riconoscibile, ed è perciò difficile confonderli. Tuttavia, alcuni disturbi che si presentano durante un attacco di panico possono riscontrarsi anche in qualche forma di epilessia, come quella del lobo temporale. Sono i fenomeni di depersonalizzazione che il paziente vive e riferisce come un’alterata percezione del proprio corpo, che gli appare improvvisamente estraneo, irreale, oppure che vede trasformato in alcune sue parti.
Altre volte può avvertire un forte senso di estraneità verso l’esterno, che gli fa apparire la realtà circostante, gli ambienti consueti, familiari come profondamente diversi se non addirittura irreali. Limitatamente a questi sintomi, l’attacco di panico si presenta come una sorta di ponte fra la neurologia e la psichiatria. In questi casi (piuttosto rari) è utile approfondire l’aspetto clinico e quello diagnostico, sottoponendo i pazienti a un elettroencefalogramma che potrà meglio chiarire la natura dei disturbi che vengono riferiti.
Il primo attacco di panico può arrivare all’improvviso e che chi lo conosce teme di avere un infarto e corre al pronto soccorso. Come mai però, anche dopo averne avuti parecchi, alcuni continuano ad andare al pronto soccorso?
È vero, dall’esperto si arriva dopo un lunghissimo, estenuante e spesso inutile accumulo di esami diagnostici. Anche i medici di base, non riconoscendo subito questo disturbo, tendono a perseverare nel cercare una causa fisica, organica, che possa spiegare la comparsa dei sintomi.
Va poi tenuto conto che, culturalmente, il paziente è più propenso ad accettare una malattia che riguarda il resto del corpo piuttosto che il cervello, perché in questo caso dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di avere un problema di natura mentale.
La persona che subisce un attacco di panico ha paura di impazzire. È una paura fondata?
Assolutamente no. Quello che terrorizza il paziente è che, perdendo il controllo, possa anche perdere il contatto con le persone più care, con i suoi affetti, con l’esterno, con il mondo a lui familiare. È angosciato dall’idea di essere abbandonato, di trovarsi da solo, in balìa di quel profondo malessere che lo ha travolto. Questo stato gli può dare la sensazione di aver sfiorato la pazzia. Ovviamente, al di là dei fenomeni di depersonalizzazione e di de realizzazione, più riconducibili a crisi di panico con un denominatore psichico e sensoriale, non esiste questo tipo di pericolo.
È mai capitato che una persona abbia avuto un solo attacco di panico?
Per diagnosticare un disturbo da attacchi di panico sono necessari attacchi che si ripetono nel tempo, con frequenza giornaliera, settimanale o mensile. Si possono avere anche crisi sporadiche, occasionali, che per la loro intensità sono in grado di cambiare radicalmente la vita di un individuo. E questo perché, anche a distanza di tantissimi anni, ciò che ha provato rimarrà profondamente impresso nella memoria. Ne sarà molto condizionato ed eviterà tutte le situazioni che anche lontanamente risveglino quel ricordo. Cercherà allora di garantirsi sempre e comunque delle rapide vie di fuga. Per esempio, se quell’unico attacco di panico lo avrà colpito mentre era in macchina, da quel momento si rifiuterà di guidare da solo, oppure si opterà per mezzi di trasporto alternativi.
C’è una tipologia di individui più vulnerabili agli attacchi di panico?
Le donne sono colpite più degli uomini in un rapporto di 2-3 a 1. Si va dalla giovane età alla maturità piena, ma non si tratta di parametri rigidi.
Colpiscono anche i bambini?
I bambini possono presentare precocemente segnali che preannunciano l’insorgere degli attacchi di panico. Cambiano improvvisamente carattere, diventando aggressivi e a volte violenti. Si rifiutano ostinatamente di andare a scuola, e protestano con forza quando devono separarsi dai genitori. Hanno una riuscita scolastica inspiegabilmente cattiva.
Lamentano spesso la comparsa di invalidanti disturbi fisici che compromettono il rendimento nelle attività sportive, scolastiche e ricreative. Molti di loro si rifiutando di giocare, di andare alle feste, di uscire se non in presenza dei genitori.
Per quanto riguarda i bambini, che cosa si può fare? Magari il genitore sottovaluta il fatto che il figlio non voglia allontanarsi da lui, né andare a scuola. Come si fa a distinguere un bambino che poi potrà sviluppare crisi di panico da uno solo fragile e ipersensibile?
Bisogna individuare innanzitutto quei fattori che a livello familiare potrebbero, in un bambino predisposto, favorire la precoce comparsa di attacchi di panico: per esempio, le separazioni, i conflitti tra i coniugi, la mancanza di uno dei due genitori, un lutto in famiglia. Poi è necessario indagare nell’ambito scolastico per verificare se qualcosa nel suo comportamento sta effettivamente mutando e osservare come si pone con i compagni, se partecipa alle attività di gruppo, se è preoccupato, se è soggetto a bruschi cambiamenti di umore. Può essere importante anche la comparsa improvvisa di sintomi come nausea, vertigini, mal di testa, dolori alla pancia, così come la frequenza di bruschi risvegli durante la notte perché in preda all’angoscia di rimanere da solo o di essere abbandonato.
Se poi il bambino ha degli attacchi di panico che si ripetono, sarà utile iniziare una cura con farmaci a bassi dosaggi per controllare le crisi, ma anche garantire un supporto psicologico, utile a monitorare il comportamento dei genitori.
Torniamo alle donne. Su dieci pazienti che vengono da lei quante sono le donne?
I due terzi.
Perché?
Perché la donna è diventata il ganglio terminale di una serie di stress psicosociali che la sollecitano in modo eccessivo. Certamente, la maggiore predisposizione genetica e il suo delicato profilo ormonale incidono molto, ma è altrettanto evidente che mai come oggi la donna è al centro di un delicato equilibrio tra l’ambito lavorativo, quello familiare e quello sociale, nei quali è impegnata in modo altamente competitivo. C’è anche da dire che lei stessa pone una maggiore attenzione ai segnali provenienti dal proprio corpo. Questo la spinge più facilmente ad accettare di rivolgersi al medico se preoccupata dal persistere di certi disturbi.
Educata nei secoli a rimanere in casa, la donna è più portata a soffrire di agorafobia, mentre l’uomo è abituato da sempre a lasciare la tana, per esempio per andare a caccia.
La donna è molto più sensibile ai cambiamenti del suo ruolo sociale, soprattutto nell’ambito familiare. Pensiamo alla sindrome del “nido vuoto”, quando i figli, ormai grandi, diventano autonomi. Una volta indipendenti, si allontanano e, infine, decidono di vivere da soli. È un momento spesso doloroso per la donna, perché vede drasticamente ridimensionata la sua sfera di influenza in famiglia e si ritrova con una qualità di vita e un livello di gratificazione diminuiti.
Quando i figli escono di casa, le donne provano un certo senso di colpa perché temono di non riuscire più a svolgere un ruolo pedagogico ed educativo nei loro riguardi. È un’emancipazione, quella femminile, pagata a caro prezzo.
Quindi, uscire di casa, abbandonare questo luogo di aggregazione che è la famiglia, può portare la donna a soffrire di disturbi psichici.
Può essere la vittima di nuove paure nel momento in cui si confronta con un modo di comunicare e competere legato all’apparenza e alla fisicità. Può sentirsi allora profondamente inadeguata se non riesce a corrispondere a quei modelli estetici che vengono presentati sempre più come l’unico importante biglietto da visita.
Oggi la magrezza è diventata, insieme alla visibilità e alla popolarità, uno dei valori più importanti per la donna. Uno dei disturbi in aumento è quindi la dismorfofobia, come pure l’anoressia e la bulimia, legate all’ossessione dell’immagine. Un fenomeno dilagante anche tra gli uomini, che appaiono sempre più attratti dal mito della bellezza. Sono, infatti, sempre di più gli uomini che, inseguendo il sogno di avere un corpo perfetto, si affidano ai bisturi. Si controllano spesso allo specchio, per osservare la forma del naso, degli occhi, i lineamenti del volto. Arrivano a spendere somme consistenti per creme e massaggi e sono dominati dall’idea di essere fisicamente irresistibili.
Abbiamo detto che il primo attacco di panico arriva all’improvviso, ma per quanto riguarda i successivi, che cosa percepisce la persona che ne soffre?
L’attacco di panico si manifesta quasi sempre con le stesse modalità. E questo in parte rassicura il paziente perché l’ha già vissuto in passato. Però, alcune volte può, in maniera più subdola, presentarsi con sintomi inconsueti, diversi. A quel punto il paziente, terrorizzato, si sente in pericolo, corre al pronto soccorso perché convinto che qualcosa di nuovo stia per accadere.
Facciamo degli esempi?
Le prime volte possono esseri dei sintomi respiratori, che danno la drammatica idea di essere sul punto di soffocare. Altre volte l’attacco può manifestarsi con un senso di pressione a livello toracico, accompagnato da fitte e da un forte e improvviso dolore nel braccio che fanno subito pensare ad un infarto. Oppure un’angosciante e persistente sensazione di “anestesia” alle braccia o alle gambe, che fa pensare a una “paralisi muscolare” diffusa.
In alcuni casi le prime avvisaglie possono essere piuttosto sfumate, un senso di distacco, di estraneità verso l’esterno. La persona sente che qualcosa nella sua percezione è profondamente cambiata, al punto che è convinta di “non esistere più”. Tutto è falsato, più ovattato, e poi all’improvviso c’è una straordinaria accelerazione del pensiero. E allora i suoni, le voci, i colori, la luce diventano ostili, insopportabili. Si instaura una relazione drammatica tra sé e sé, dove tutto viene ascoltato, monitorato, percepito e seguito in maniera ossessiva fino a che poi il paziente non sopporta più queste sensazioni e chiede aiuto, perché è certo di essere sul punto di impazzire. Piange, si dispera e si aggrappa a chi in quel momento si trova vicino a lui.
Chi subisce l’attacco di panico spesso si vergogna delle proprie paure e a volte decide di ritirarsi da tutte le occasioni sociali. Teme molto il giudizio degli altri, ma anche di non essere compreso o di trovarsi in situazioni da cui può risultare difficile sfuggire.
E quanto dura un attacco di panico? Ha una durata standard o dipende da persona a persona?
L’attacco di panico può durare da pochi minuti fino a un massimo di venti minuti, mezz’ora. Ma le sensazioni sono talmente intense che il paziente ha la certezza di aver vissuto un’angoscia lunghissima della quale non riusciva a vedere la fine.
Quindi, finisce così, all’improvviso come è iniziato? Il cuore riprende a battere normalmente, si ricomincia a respirare…
Esaurita la fase acuta, subentra la “fase post-critica”. Il paziente appare ancora profondamente provato, esausto. Entra in uno stato di prostrazione e di astenia fisica protratta, perché la crisi appena trascorsa ha sollecitato in modo intenso tutto il suo corpo. E questo ci fa capire quanto la dimensione fisica partecipi durante l’attacco di panico, quanto il cervello coinvolga ogni parte del corpo.
La persona sente un forte bisogno di dormire, di recuperare forze ed energie perdute. Ma al risveglio riaffiora quella sensazione angosciante di insicurezza e di precarietà riguardo la propria vita e il proprio futuro. Così compare anche la “fobofobia”, la paura di avere paura.
Chi soffre di attacchi di panico può arrivare fino al punto di non uscire più di casa?
Si arriva a sterilizzare in maniera ossessiva la propria vita. Anche delle nuove amicizie o degli amici troppo propositivi diventano improvvisamente “pericolosi” perché possono contribuire a sconvolgere quell’agenda quotidiana che chi soffre di panico ha determinato in modo rigido e rigoroso per garantirsi la sicurezza e il controllo totale.
Questo vale anche per un nuovo amore, una nuova amicizia, un viaggio… Ecco allora che entra in campo l’immaginazione, che è potentissima nelle persone che soffrono di crisi di panico. L’immaginazione ti fa ipotizzare tutto ciò che potrebbe ancora accadere con un miglioramento professionale: già mi vedo nella riunione, vedo gli sguardi giudicanti delle persone, sento di arrossire, le gambe tremano…
È una “fiction esistenziale” costante, perché la vita di queste persone è pianificata in modo ossessivo. Prevalgono l’analisi e il monitoraggio continuo che porta a un’interpretazione di tutto quello che accade all’interno e all’esterno della propria vita. L’obiettivo primario di queste persone è sempre quello di prevedere e anticipare tutto ciò che può essere potenzialmente pericoloso per loro. Tendono a simulare e a immaginare circostanze catastrofiche che le riguardano. Se sono costretti a recarsi in un luogo diverso dalla propria città, che è già stata preventivamente mappata, alcuni pazienti fanno fare dei sopralluoghi preventivi a qualcuno. Fino a quando, dopo aver a lungo esitato, decidono e partono.
Cercano delle garanzie?
Sì, ma non sono mai sufficienti per loro. Si informano se in quel luogo c’è un presidio ospedaliero, un servizio di pronto soccorso, se ci sono dei bravi dottori. Prima di partire cercano di ottenere dei numeri telefonici a cui poter ricorrere nell’eventualità di una qualunque emergenza o di un attacco di panico. Sono straordinari strateghi nel pensare e nel prevenire tutto quanto potrebbe verificarsi, per non trovarsi impreparati ad affrontare un eventuale pericolo.
|